CESARE PAVESE NELLA LETTERATURA CALABRESE di Giovanni Russo
CESARE PAVESE NELLA LETTERATURA CALABRESE di Giovanni Russo
Sollecitato dal carissimo Prof. Domenico De Maio che, da anni, ormai mi onora della sua amicizia, non mi sono potuto sottrarre alla responsabilità di offrire il mio modesto contributo a questo Simposio, pur non essendo uno specialista della materia.
Pertanto, l’intervento non si propone di offrire un disegno articolato e completo sullo stato degli studi riguardanti l’annuncio del titolo; tuttavia, tenterò di presentare materiale significativo, in parte certamente già noto agli addetti ai lavori.
Alla scarsa attenzione rivolta in Calabria, tra il 1936 e gli anni ’60, alla circostanza singolare del confino di Pavese a Brancaleone, vuoi per il particolare momento politico, vuoi per la mancanza di organiche trattazioni di storia letteraria calabrese, rimedia, in questi ultimi vent’anni, il cominciare ad avvertire una più attenta coscienza critica che rappresenta uno dei modi con cui la letteratura e la cultura regionale si avvicinano alla letteratura e alla cultura della nazione.
Ad occuparsi di Pavese, prima di ogni altro calabrese, fu Mario Alicata[1], il politico calabrese redattore della Casa Editrice Einaudi, di cui dirigeva la sede romana, che in Oggi del 1941, sottolineò, tra l’altro, come in “Lavorare stanca affiorano in ogni istante l’affettazione di un piglio spavaldo e sbarazzino, e il compiaciuto turgore d’un proprio estroso romanticismo: affiora in ogni istante il vagheggiamento d’una vita vagabonda e oziosa che è poi la vita degli uomini dal sangue caldo, dal largo riso, dai singhiozzi che squassano il petto, dalla carne accesa”.
Di Davide Lajolo cui, nel 1961, venne assegnato il Premio “Crotone” per il volume “Il vizio assurdo” del 1960, varrà ricordare l’articolo sull’Almanacco Calabrese[2], del 1968, dal titolo: Cesare Pavese in Calabria, che può essere considerato il primo contributo alla conoscenza della permanenza forzata del Pavese a Brancaleone, ricostruito sulla scorta delle lettere, del diario, ma anche delle confessioni fatte dal grande poeta e narratore all’amico. “Ho un ricordo di lui vivo – così il Lajolo – della nostra amicizia, delle confidenze che riottosamente mi faceva…il periodo del confino ha aperto la ferita che non si doveva chiudere più…” anche se “Sia il paesaggio della Calabria, sia quell’anno di confino, sia quel mare, Pavese li portò con sé per il resto della sua vita”.
All’epoca dello scritto del Lajolo, la Calabria non aveva ancora una storia organica della letteratura calabrese. Solo nel 1965, la realizzò Antonio Piromalli[3]che, in anni più recenti, la ripropose con due edizioni rivedute ed aggiornate, in una delle quali, (l’ultima[4], del 1996), non manca di sottolineare come Pavese non può essere considerato un “neorealista” alla maniera dei neorealisti del secondo dopoguerra che si caratterizzarono per : antifascismo, restistenza, coscienza della storia, dei rapporti dell’individuo con la realtà, la comunità, il lavoro e la classe, inquadrando, in tale contesto, Fortunato Seminara, lo scrittore de “Le Baracche”.
Uno dei primi timidi tentativi di affrontare, in Calabria, l’argomento Pavese, può essere considerato quello di Francesco Bruno[5] che, nella sua Letteratura Meridionale, del 1968, in un breve flash, definiva Vittorini e Pavese i primi giovani scrittori che, interpretando le opere straniere, posero l’accento sul fatto che il realismo americano mirava a scavare nel profondo della coscienza e a trarre fuori i sentimenti intimi, intrecciandoli fra loro e incanalandoli secondo una direzione precisa: perché gli uomini recano un messaggio segreto, che soltanto i poeti riescono a captare e a fermare nel prospetto di un linguaggio nativo, orfico, emblematico. La sintassi dei narratori d’oltre oceano era semplice ed efficace. Vittorini e Pavese dettero un senso e uno spessore morfologico a quella sintassi, che impegnava lo spirito in una ricerca lineare e approfondita delle passioni umane e sociali, come si sgomitolavano e rivelavano all'attenzione dei lettori dei nostri giorni difficoltosi. Secondo Bruno, fu proprio l'esperienza letteraria vissuta a contato della narrativa americana che favorì il determinarsi e dipanarsi, in Vittorini e Pavese, della norma personale di un realismo, che assumeva toni e accenti lirici inconsueti. Come narratori, introdussero sì un dialogo di marca strettamente anglosassone, ma aggiunsero di loro individuale contributo una sofferenza sotterranea, a carattere esistenzialistico.
Anche per Antonio Piromalli[6], in Studi sul Novecento (del 1969): “Pavese aveva trovato nell’impegno umano e politico il legame con la società e realtà”.
Assieme a Pivano, Lajolo e Bianucci, ancora un altro calabrese di Gerace, Paolo Cinanni[7], nel 1970, affronta il caso Pavese, mentre, nel 1973, F. Furci[8] pubblica sulla rivista “Contenuti”: Pavese in prospettiva.
Non manca di sottolineare, Pasquino Crupi[9], nella sua Storia tascabile della letteratura calabrese (del 1977), come anche Lorenzo Calogero, altro grande poeta calabrese suicidatosi nel 1961, si sia nutrito di letture dei testi, oltre che d’autori stranieri (Holderlin, Novalis, Rilke, Rimbaud, Mallarmè, Pound ed Eliot), anche di quelli di poeti italiani: Ungaretti, Montale, Gatto, Sinisgalli, Luzi, Betocchi, Campana, Quasimodo e, naturalmente Pavese.
Solo in anni relativamente recenti una parte della schiera di critici calabresi sembra aver preso atto dell’importanza della figura di Pavese. Nella sua esemplare esegesi dell’opera dello scrittore di Santo Stefano Belbo, Giuseppe Neri[10], prima Ordinario di Letteratura italiana negli istituti superiori ed oggi Professore utilizzato di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’università di Messina, nonché Preside del Liceo Classico di Nicotera, sua città, con il saggio: Cesare Pavese e le sue opere, (del 1977), che è il primo volume apparso in Calabria sull’argomento, ha cercato di dare una visione unitaria e accurata delle opere fondamentali del Pavese “engagé” e, attraverso una serie di lettere e di documenti inediti, ha ricostruito la figura dello scrittore assieme alle sue inquietudini, alle angosce, ai mutamenti politici, alla ricerca esasperata del suicidio. Non esitò, allora, il Prof. Antonio Piromalli a definire lo studio di Neri su Pavese, “il più informato che esiste”. Nel volume, ampiamente recensito dalla stampa locale e nazionale, mancò, però, la trattazione della ricostruzione del periodo trascorso da Pavese a Brancaleone, tra l’agosto 1935 e Marzo 1936.
Nell’articolo “Autobiografia calabra di Pavese” (pubblicato sulla Gazzetta del Sud[11], nel 1977), lo stesso Neri prende in esame Il Carcere, racconto delle insoddisfazioni, per sostenere come “la metafisica di questo lavoro finisce col tenere conto delle dimensioni dell’esistenza divenendo oggetto emblematico dell’esperienza quotidiana” e come “il protagonista fa l’esperienza dell’assurdo ma poi ritiene più giusta la condizione di una società che valuti la dignità di una persona”.
E’ ancora Giuseppe Neri che, nel 1978, sul Giornale di Calabria[12] affronterà, in un nuovo articolo, il tema: Pavese e le liriche dal confino calabro.
Saltando nel tempo, dobbiamo registrare la vigile attenzione di Pietro Pizzarelli che, nella sua “Critica alla poesia del Novecento[13]”, pregiata rassegna panoramica edita nel 1979, trova in Pavese “una coerente, forte, tematica, solo apparentemente contenuta e dimessa, forse non troppo varia, ma molto ricca di significati, di suggestioni, di motivi, certo più drammaticamente sofferta, serrata nella morsa dell’ansia e dell’angoscia esistenziali, più lacerata e più lacerante nelle contraddizioni fra civiltà contadina e società industriale, fra destino e libertà, fra prepotenza e giustizia, fra l’innocenza infantile e l’egoismo dell’uomo, fra un acceso bisogno d’amore e l’impossibilità di viverlo, fra la consapevolezza d’essere soli in stato di necessità, di fallimento, di incomunicabilità e l’irrefrenabile spinta verso la comunità sociale e verso un approdo di fede (una tematica, quindi, messa in crisi, posta in bilico tra gli istinti irrazionali e gli impulsi di ragione, tra l’interiore sentimento, che è struggente ansia di bene, ruggente moto del cuore, volontà di partecipazione agli eventi del mondo, e l’esteriorizzarsi delle manifestazioni e delle vicende della società con le sue lacerazioni, le sue guerre disumane, le sue vecchie strutture, i pregiudizi di sempre e le speranze nuove). Sempre per Pizzarelli, il Pavese, sollecitato da un’esigenza di equilibrio tra momento lirico e stesura narrativa, non suggestionato dalle poetiche della parola, della lirica pura, dalle analogie, del magismo, del simbolismo, del futurismo, del crepuscolarismo, del frammentismo, dell’ermetismo imperante che aveva assunto, più spesso, il significato di un comodo disimpegno letterario e borghese contrabbandato come presa di posizione politica a sfondo antifascista, ma neppure irretito dalla tradizionale cultura provinciale, retorica, barocca, classicheggiante, o dall’altra sua dimensione sdolcinata, leziosa, falsamente elegiaca e piagnona, Cesare Pavese persegue senza tentennamenti, da solo, il suo lavoro tecnico-artigianale, il suo mestiere di poeta, pur nel comprensibile contrasto di sentimento e di ragione, di consapevolezza critica e di fede in qualcosa, in qualcuno (la campagna, la città di Torino, la donna, gli amici, il partito) anche se tutto, se tutti, al limite, lo deluderanno…… Il lavoro, le vicende, le vicissitudini di Pavese – per Pizzarelli – il suo destino di uomo, il suo mestiere di letterato, fanno tutt’uno in lui, nel suo mondo poetico: il suo stile è perciò la sua stessa vita, la consapevolezza etica, la necessità di vedere chiaro nelle cose, di ricondurre tutto nell’ambito d’una lucida e robusta razionalità, nel contesto d’una esistenza umana che, se non è libera, se non ha possibilità di scelte varie, resta tuttavia arbitra del proprio destino ed è quasi naturalmente portata ad accettare la propria sofferenza e la propria condizione, realizzando così, meglio, la dignità e la forza dell’uomo, la sua supremazia sulle cose e la sua terrena divinità”.
Questo è il messaggio che Pavese, secondo Pietro Pizzarelli, ha affidato al suo originale e personale registro poetico, non semplice e facile, come potrebbe sembrare a prima vista, in quella stesura narrativa, distesa e chiara, della parola essenziale, ossuta, precisa, capace di rispecchiare le cose, di esprimere la realtà, di identificarsi con essa. Ribellione e rassegnazione non supina, non cieca, ma illuminata e stoica, immaginazione, spinta talvolta al limite della fiaba, e crudo dato di cronaca, fatto brutale, motivi rasserenanti e male di vivere, pena di uomini e di cose, malinconia acre, diffusa, e momenti di gioiosa serenità, di commozione infantile, di trasalimenti lirici felicemente inseriti nel contesto d’una situazione fisica e umana, realisticamente spoglia, amara e brutale, costituiscono un groviglio di elementi, di fatti, di passioni, di emozioni, di figure indimenticabili, di paesaggi precisi, plasticamente vivi; un groviglio narrativo di uomini, cose, eventi, proiettati unitariamente verso un ineluttabile destino, verso uno svolgimento dialettico di chiarificazione, di completamento naturale della propria esistenza, in uno sforzo gnoseologico ed etico di perfezionamento, di riscatto civile e sociale dell’uomo, capace perciò di preparare, di accettare, la propria condizione e la propria sorte, quivi compresa la fatalità della morte.
Nel 1981, è la voce di un altro critico calabrese, Vincenzo D’Agostino, autore di due volumi critici: Civiltà Letteraria del Novecento[14], a pronunciarsi nei riguardi di Pavese. Oltre ad una scheda biografica, D’Agostino affronta i temi del dramma, i miti ricorrenti, la carriera artistica, le opere, l’ultimo Pavese, posando nuovamente l’accento sull’ideale della poesia-racconto: quella che non chiude in sé il senso di un’astratta e remota pietà, bensì una concreta partecipazione alle pene e alle gioie dell’uomo, ed ha un suo preciso significato autonomo a causa della resistenza al trionfo (tutto novecentesco) della poesia come lirica. Ecco il perché della sua collaborazione in una linea di sperimentalismo realista. Bisogna, comunque, intendersi sul realismo di Pavese e sul presupposto oggettivismo che sembra essere alla sua base: puntare sull’oggettivo non significa soltanto liberarsi dalle prevaricanti seduzioni dell’”io” (con i relativi precipitati : effusione, sentimentalismo, intimismo morboso) ma anche, e soprattutto, riscoprire l’altro da sé, aprirsi all’”alterità”, dar luce all’”essere tragico” dell’uomo umanità, raccontandone la realtà che non esclude la surrealità, il sogno, le zone sensibili e vertiginose dell’inconscio”….”Con Pavese si ha la riscoperta della realtà nella sua dura e dolorosa concretezza, per forza di un’ispirazione che trova un fecondo stimolo nella letteratura americana non meno che nella fedeltà alla sua terra e nel fervido interesse umano per la sua gente”.
Anche Anna Vincenza Aversa, nel suo volume “Dopoguerra calabrese : cultura e stampa 1945/79[15], edito nel 1982, si sofferma brevemente su quel Pavese che “ha sempre avuto l’intento di rappresentare una realtà in movimento con tutti i contorni del dolore; e dall’altra parte, ha sempre cercato un motivo di vita negli aspetti nascosti degli uomini e delle cose, cogliendo oggetti come esseri : cioè nella loro essenzialità...”.
In Come visse al confino Cesare Pavese[16] e in Cesare Pavese e la Calabria[17], due scritti di Mario La Cava, il primo pubblicato sul Corriere della Sera nel 1982 ed il secondo ripubblicato in un’antologia di scritti calabresi, a cura di Vincenzo Pitaro, nel 1995, l’indimenticabile scrittore di Bovalino, autentica voce di grande calabrese, punta a fare emergere i termini del raffronto tra la testimonianza dell’esperienza Pavese e i dati della meditazione storica della realtà calabrese. Le osservazioni di Pavese, secondo La Cava, “indipendentemente dalla loro valutazione estetica, si possono benissimo isolare per dare idea di un giudizio, che se non è quello complesso di un sociologo, è sempre quello di un poeta, dotato di senso critico penetrante. Non dice cose che non si sapessero, ma le dice con un accento originale. Chi, tra i calabresi, le legge è portato ad apprezzarle per l’aiuto che egli dà a comprendere meglio la propria regione. Per non dire che servono bene a illustrare il punto di vista dal quale si mettono i settentrionali…quando parlano delle cose del Sud”.
Scegliendo di privilegiare la presenza di Pavese in Calabria, il giovane giornalista di Siderno, Enzo Romeo, con il saggio del 1986 : La solitudine feconda : Cesare Pavese al confino di Brancaleone 1935-1936[18] , demolisce, attraverso un resoconto stringato ed essenziale, la tesi canonica del Pavese ostile ed estraneo all’ambiente ed alla cultura calabrese. Come cronista serio ed attento, Romeo rivisita il vissuto calabrese di Pavese con pazienza certosina. L’autore non cerca lo scoop a tutti i costi, ma ripulisce il selciato dei luoghi comuni, o comunque ci tenta con grande onestà. Leone Piccioni, infatti, nella breve presentazione al libro, non manca di marcare che “Dalla ricerca emerge infatti chiarissima, non senza un’inflessione di legittimo orgoglio meridionale, l’incidenza della civiltà greca di Calabria sull’evoluzione interiore dello scrittore piemontese. Tale incidenza ebbe praticamente a risolversi in un sostanziale acquisto di sensibilità e di cultura, destinate a rivestire una primaria importanza per il futuro autore dei Dialoghi con Leucò, non a caso il libro che l’autore ebbe più caro”. E’ lo stesso Romeo che, nelle conclusioni del libro, ricco di documentazione e di foto, oltre a sottolineare che il confino in Calabria ha rappresentato un momento importantissimo nella parabola letteraria pavesiana, respinge con forza l’assunto dell’antropologo Luigi Lombardi Satriani che in un articolo di Paese Sera aveva affermato categoricamente che la Calabria non aveva suscitato la curiosità di Pavese che, anzi, era rimasto fondamentalmente estraneo ed ostile alla sua realtà.
Di Pier Franco Bruni è quel tascabile : Cesare Pavese : Interventi [19]edito, nel 1986, per le edizioni Pellegrini, mentre di Antonio Piromalli è la scheda su Pavese nella : Storia della letteratura italiana[20] del 1987.
Più proficuo, dal punto di vista documentario, appare il nuovo lavoro di Giuseppe Neri, del 1989, : Cesare Pavese in Calabria : con un’appendice di documenti d’Archivio[21]. In esso, Neri, presentando una sfilza di documenti, quasi tutti in facsimile, colma quel vuoto che, nel 1977, si riprometteva di studiare con molta attenzione. “Scoprire gli inediti, - così il Neri - leggere tra le righe delle lettere il suo animo, non è stato facile, perché il confino è stato preceduto ed accompagnato da una serie di documenti delle Regie Questure del tempo, quelle di Reggio Calabria, di Torino, di Roma; di rapporti scritti; di certificazioni che rivelano pure lo spaccato di una storia del tempo, o, se vogliamo, la storia particolare di un periodo difficile per l’Italia che vede quale protagonista la piccola borghesia, l’uomo-in-divisa, che detiene il destino degli intellettuali antifascisti”. Il capitolo relativo ai confinati politici e, nella fattispecie Cesare Pavese, Neri lo riproporrà, nel 1992, ne “Il Corriere Calabrese[22]”, arricchendolo di ulteriori note.
A riprendere il problema dell’influenza americana sul nostro poeta, coinvolgimento che avrà termine proprio quando il mito di quella società e tutto ciò che questo rappresenta crolleranno, ritorna Maria Curti, nel 1990, con l’articolo “L’America come “alternativa” negli anni del fascismo per Pavese e Vittorini[23].
Una rilettura, invece, dei testi pavesiani con alcune felici intuizioni critiche può essere considerato il saggio, del 1991, di Giovanni Carteri[24]: Al confino del mito (Cesare Pavese e la Calabria). E’ un lavoro che mette al riparo le reliquie di un capitolo biografico che prima si presentava, in un certo senso, lacunoso e incerto. Molto significativo anche il capitolo “I luoghi della memoria”, ricco di descrizioni e di documentazione fotografica di Brancaleone all’epoca della presenza di Pavese.
Sempre di Carteri, secondo cui la parola ferma e asciutta di Pavese deve far riscoprire l’orgoglio sano della “calabresità”, impregnata delle voci, degli odori di una “terra dura” che si ostina a non voler morire, è l’altro saggio, del 1993, : Fiori d’Agave : Atmosfere e miti del sud nell’opera di Cesare Pavese[25]. In questo studio, Carteri fa dell’esperienza del confino a Brancaleone, un nodo centrale dell’esperienza umana ed espressiva di Pavese che proprio a contatto con la Magna Grecia e con lo Jonio di Ulisse intuì la possibilità di uscire dal “descrittivismo” e di passare dai versi alla prosa.
Pasquino Crupi[26], nella sua Storia della letteratura calabrese : autori e testi (del 1997), nel richiamare l’attenzione su Domenico Zappone, giornalista e scrittore di Palmi di Calabria, suicidatosi il 5 Novembre del 1976, fa rilevare come “Dal piccolo osservatorio di Palmi con il collo lungo, come la giraffa, Domenico Zappone si sporge verso gli scrittori americani, in primo luogo Ernest Hemingway e Arthur Miller e verso gli scrittori italiani, principalmente Elio Vittorini, Cesare Pavese”;
Per concludere questa affrettata ed incompleta panoramica, mi corre l’obbligo di segnalare, infine :
- la recente pubblicazione (Febbraio 1999), di Giosafatto Pangallo : Narrativa dell’utopia (I.Silone, E.Vittorini, C.Pavese) [27]. Quanto a Pavese, l’analisi del Professore di Taurianova, così si articola : Dati biografici e svolgimento dell’opera; Le opere; La produzione poetica; Compendio delle opere; Traduzioni di Cesare Pavese; Studi su Cesare Pavese e Bibliografia. Anche se destinata alle scuole della Calabria, non si tratta di una raccolta antologica per le scuole scelta a caso che va ad aggiungersi ai tanti eterogenei prodotti offerti dall’editoria scolastica, ma è frutto di una precisa volontà che è quella di divulgare, tra i giovani, l’opera dei tre e, quindi, di Pavese ma anche di avvicinare tre autori tra loro molto vicini per le loro esperienze biografiche e culturali, tutti e tre molto impegnati, tutti e tre passati attraverso una drammatica esperienza di sinistra : simili e insieme diversi, che permettono di confrontare tra loro protagonisti della nostra più recente produzione letteraria, con possibilità di raffronti che la loro stessa presenza giustifica.
L’analisi risulta puntuale e ad essa rinvio per la conoscenza dei motivi e modi relazionali.
Le Edizioni Periferia di Cosenza, per l’occasione, fanno omaggio al Centro Studi di una copia del volume di Pangallo.
- L’imponente lavoro di Monica Lanzillotta[28] : “Bibliografia pavesiana “, edito sotto l’egida dell’Università degli Studi della Calabria, nel 1999.
Nonostante i limiti del lavoro compiuto e qui presentato, contro la vastità della problematica ancora in piena evoluzione, il prendere coscienza, da parte di saggisti calabresi, del tesoro prezioso dei valori corrispondenti allo studio dell’indelebile traccia lasciata in Calabria dall’illustre langarolo, ha il significato della riappropriazione dei valori che, di fronte al progressivo dissolversi di ogni identità, individuale e collettiva, di fronte alla ricerca di un nuovo modo di essere la civiltà del futuro, sono da reinventare ogni giorno come memoria, come stimolo, come orgoglio.
[1] In Oggi del 19 Luglio 1941.
[2]Davide Lajolo, Cesare Pavese in Calabria, in Almanacco Calabrese 1968, pp-53-61.
[3] Antonio Piromalli, La letteratura calabrese. Cosenza : Pellegrini, 1965.
[4] Antonio Piromalli, La Letteratura calabrese, Vol.2°. Cosenza : Pellegrini, 1996, p.276.
[5] Francesco Bruno, Letteratura Meridionale, Cosenza : Pellegrini, 1968, pp.317-318.
[6] Antonio Piromalli, Studi sul Novecento, Firenze : Olschki 1969, p..227.
[7] In Cesare Pavese , Asti : Istituto Nuovi Incontri, 1970.
[8] In Contenuti, Anno V, n.9-12, Sett.-Dicembre 1973.
[9] Pasquino Crupi : Storia tascabile della letteratura calabrese. Cosenza : pellegrini, 1977, p.92.
[10] Giuseppe Neri, Cesare Pavese e le sue opere, Reggio Calabria : Parallelo 38, 1977.
[11] In Gazzetta del Sud, Martedì 20 Settembre 1977, p.3.
[12] In Giornale di Calabria del 26 Febbraio 1978.
[13] Pietro Pizzarelli, Critica alla poesia del Novecento, Cosenza : Pellegrini, 1979, pp. 259-261;
[14] Vincenzo D’Agostino, civiltà letteraria del Novecento, Vol. I e II, Chiaravalle Centrale : Frama Sud, 1981.
[15] Anna Vincenza Aversa, Dopoguerra calabrese, cultura e stampa : 1945/79. Cosenza : Pellegrini, 1982, pp. 100-101.
[16] In Corriere della Sera del 29 Dicembre 1982.
[17] Mario La Cava : Cesare Pavese e la Calabria, in Antologia di scritti calabresi di Vincenzo Pitaro. S.l. : L’Altra Calabria Editrice, 1995, pp. 125-131.
[18] Enzo Romeo, La solitudine feconda : Cesare Pavese al confino di Brancaleone 1935-1936. Cosenza : Progetto 2000, 1986.
[19] Pier Franco Bruni : Cesare Pavese : interventi. Cosenza : Pellegrini, 1986.
[20] Antonio Piromalli : Storia della letteratura italiana. Cassino : Garigliano, 1987, pp.523-524.
[21] Giuseppe Neri, Cesare Pavese in Calabria : con un’appendice di documenti d’archivio. Marina di Belvedere : Grisolia, 1989.
[22] Giuseppe Neri, Il fascicolo sui confinati politici : Cesare Pavese, in Il Corriere Calabrese, n.3, Luglio-Sett.1992, pp.
[23] Anna Curti, L’America come “alternativa” negli anni del fascismo per Pavese e Vittorini, in Periferia, n.37, Gennaio-Aprile 1990, pp.3-12.
[24] Giovanni Carteri, Al confino del mito (Cesare Pavese e la Calabria). Soveria Mannelli : Rubbettino, 1991.
[25] Giovanni Carteri, Fiori d’Agave : Atmosfere e miti del Sud nell’opera di Cesare Pavese. Soveria Mannelli : Rubbettino, 1993.
[26] P. Crupi : Storia della letteratura calabrese : Autori e Testi., v. IV. Cosenza : Periferia, 1997, p. 117.
[27] Giosofatto Pangallo : Narrativa dell’utopia (I. Silone, E. Vittorini, C. Pavese). Cosenza : Periferia, 1999, pp.159-234.
[28] Monica Lanzillotta : Bibliografia pavesiana. Rende, Centro editoriale e Librario- Università degli Studi della Calabria, 1999.
(*) Contributo per il simposio del 22.10.1999 tenuto a Santo Stefano Belbo (CN)
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